Maternità ( parte 1 di 3)

Reinterpretazione della Metamorfosi di Kafka in chiave femminile con l’aggiunta di elementi pulp.

Parte 1 di 3.


I

Quando Maria Anselmi si svegliò una mattina da sogni tormentosi si ritrovò sul suo letto incinta di nove mesi. Giaceva sulla schiena in una posizione inusuale per lei e sollevando poco il capo poteva vedere la sua pancia enorme e perfettamente tonda. Il suo ombelico, al centro, sembrava il nodo di un palloncino. Aveva l’impressione che potesse esplodere da un momento all’altro.

«Cosa mi è successo?» pensò. Non era un sogno. La stanza, la sua stanza era come la ricordava. Quattro pareti bianche e i suoi dipinti in ogni angolo. Sopra la scrivania poggiava su un piccolo cavalletto una tela appena abbozzata. Era la cupola verde di Treviso immersa in un cielo azzurro. Ai piedi del cavalletto, pennelli e tempere sparse alla rinfusa.

Aveva dipinto? Questo non lo ricordava.  Alzò la testa cercando di sedersi ma il pancione non glielo permetteva. Sentiva ogni muscolo del corpo premere contro il bacino. Si lasciò cadere sopra le lenzuola e prese il telefono. Erano le otto e mezza. Doveva già essere a lezione.

Possibile che la sveglia non avesse suonato? No, la sveglia suona tutti i giorni. Ma allora perché non l’ha sentita? Come ha potuto lei, lei che ha il sonno leggero come una piuma sul mare, non svegliarsi con quella canzone tecno che fa tremare anche i muri? 

Ricorda di non aver dormito bene, per niente. Ricorda una stanza da contorni indefiniti illuminata da una luce bianca come il palco di un teatro. Ricorda una creatura. Un bambino? No. Una creatura informe che si trascinava verso lei con l’auto di una sola mano rubando minuti alla vita per raggiungerla. La paura, il terrore. Quella creatura aveva gli occhi, gli occhi di…

Proprio mentre cercava di ricordare quel sogno tormentato venne bussato lievemente alla porta. Dal tocco leggero e sensibile, Maria capi che si trattava della madre.

«Maria, tutto bene?»

Non poteva, non poteva lasciare che lei la vedesse in quello stato. Aveva solo vent’anni.

«Mamma, sto bene. Non entrare. Scendo subito» rispose e sentì la madre allontanarsi.

Doveva alzarsi da letto e poi avrebbe pensato a cosa fare ma prima di tutto doveva chiudere quella porta. Chiuderla a chiave. Appoggiò il telefono sul comodino e pensò al come alzarsi. Frontalmente era impossibile, l’unica soluzione era ruotare un po’ a destra, un po’ a sinistra fino ad avere abbastanza spinta da cadere a terra. Curandosi bene di cadere di schiena. Cominciò a ruotare ma il suo corpo esile, confrontato al pancione non le permetteva una rotazione superiore a una quindicina di gradi per parte. Ricordava le tartarughe di mare. Rise all’idea, alla paradossale idea di essere incinta di nove mesi con quella pancia che sembra essersele stata trapiantata da una donna di dimensioni e muscolatura molto superiori alle sue. Mentre ruotava lentamente, aumentando sempre più l’angolo d’apertura, pensò di farsi qualche foto per lei, lei soltanto. L’idea della foto con il pancione però le rimembravano quelle immagini delle star che posano nude in un antiestetico senso delle prospettive. E pensare che c’è gente che si masturba su quelle immagini. Sentì il rumore della moka cantare al piano inferiore. Doveva muoversi, sua madre sarebbe ritornata presto. Continuò a sbilanciarsi, fece un lungo respiro e si lanciò. Cadde con la schiena e un rumore sordo ma forte si propagò per tutta la sua stanza. Per tutta la casa.

«Cazzo, avrò svegliato qualcuno» pensò.

Aveva ragione.

Dal corridoio sentì la voce di suo fratello: «Maria, tutto apposto?».

Lei voleva rispondergli ma aveva il fiato corto, tagliato come una spada sul vento da quel colpo sulla schiena.  Cercò di alzarsi aiutandosi un po’ con la struttura metallica del letto, un po’ con il comodino.

«Maria, tutto ok?». La voce di suo fratello era sempre più vicina. Davanti a sé, oltre la camera, poteva sentire anche i passi di sua madre salire le scale. Doveva assolutamente chiudere la porta.

Stringendo i denti si alzò di braccia in uno sforzo disumano. Dal bicipite al flessore, ogni suo muscolo era teso come corde di un violino durante il Capriccio n.24 di Paganini e le vene pompavano sangue e sangue gonfiandosi e ritraendosi come un martello pneumatico che apre l’asfalto. Mimò un urlo consapevole del fatto che non poteva, non poteva fare rumore.

Si alzò, un solco simile a un sorriso comparve sul suo volto.

14 passi.

Bastavano 14 passi per arrivare alla porta. Li contava ogni mattina, ogni giorno, ogni volta che si alzava dal letto. Quei 14 passi erano la distanza che l’allontanava dal suo mondo per obbligarla a entrare in quello degli altri. Ma quello, il suo mondo, rimaneva là ad aspettarla. Il suo mondo fatto di tele, di quadri, di quell’arte avvolta dal fumo della vita che ogni tanto si schiarisce lasciandole intravedere il senso del tutto.

L’arte.

Fece il primo passo e una forza la trascinò verso il pavimento, come se avesse uno filo rosso legato tra la punta dell’ombelico e il centro della Terra. Si fermò, usò entrambe le mani per sorreggere il pancione e continuò, passo dopo passo, allargando le ginocchia, verso porta. La pancia le dava fastidio, molto fastidio.  A metà la sua attenzione virò verso la tela sulla scrivania. Il cielo intorno alla cupola di Treviso ora era avvolto da una nebbia da cui si distingueva una figura sopra la cupola, dietro la grande croce dorata… l’incubo ritornò a bussare.

«Maria, rispondi!»

La voce di suo fratello la riportò nel mondo vero, nella sua stanza. Doveva chiudere la porta. Continuò camminando a rana, strusciando l’adduttore caldo contro la pancia. Superò quell’attrito, resistendo al dolore delle due pelli a contatto, pelli del suo corpo che però sembravano parevano due estranei.

«Non aprire!» urlò lei toccando la maniglia e spingendo con tutto se stessa verso di lei.

«Che hai?»

La risposta a quella domanda fu lo scattò della chiave.

Ora poteva riposarsi.

Nessuno sarebbe più entrato.

Nessuno sarebbe più uscito.

«Maria!» insisté il fratello, ma lei non rispose. Si appoggiò alla porta e si lasciò trascinare verso il pavimento. C’è l’aveva fatta.

Ma fu in quel momento che l’orrore cominciò davvero.

Sentì un battito, un altro. Poi un altro ancora. Erano dentro la sua testa, dentro le sue orecchie; dentro la sua pancia. Le sue mani ancora appoggiate sotto il grembo sentirono un calcio.

Un piede.

Urlò. Questa volta senza trattenersi.

«Che cosa mi sta succedendo?» pensò mentre dietro di lei la sua famiglia bussava alla porta.

La nebbia sulla tela, intanto, si era dissolta rivelando il corpo deforme di un feto.

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