Inverno

Un racconto triste per salutare l’inverno, sperando che la primavera mi regali storie più colorate.


Quando la vede uscire dalla clinica ha la testa appoggiata sullo schienale dell’auto. Non sorride e ha un asfissiante senso di vomito. Lei ha il viso teso, chiuso come una morsa e cammina raggomitolata, come un tulipano nei giorni di brina, cercando di sfuggire al vento di un inverno infinito. Apre la portiera e si siede al suo fianco.

«Bene» fa l’uomo girando la chiave, accendendo il motore.

Lei guarda fuori dal finestrino. Apre la bocca per riempirsi le vene di quell’aria gelida rimasta impigliata tra i filamenti del suo cappotto.

«Non l’ho fatto» sussurra.

L’uomo pare non l’ascolti. Allunga la mano a chiederle in biglietto del parcheggio. Lei glielo porge.

«Non l’ho fatto» ripete guardandolo negli occhi. Lui soccohude gli occhi, inclina un po’ le labbra aride. Torna alla guida.

Escono dal parcheggio e solo quando imboccano la statale, l’uomo parla.

«Me lo avevi promesso».

«Si è vero». fa lei guardando fuori. Neve sciolta comincia a cadere dal cielo. Si appoggia sull’auto leggiadra come foglie d’autunno, scivolando come acqua tra i capelli.

«Se pensi che io…»

«Non devi preoccuparti…» lo interrompe alzando la voce.

«…Farò da sola»

L’uomo alza le spalle.

Imboccano l’autostrada.

Rimangono in silenzio per una ventina minuti. Un silenzio dove la pioggia nevata è l’unico Soprano di una melodia raggelante. La donna, testa appoggiata al finestrino, sente le vibrazioni del veicolo per tutto il corpo. Percepisce questa melodia femminile.

La neve, bianca, candida, innocente è femmina.

Vorrebbe sparire come fanno i fiocchi di neve quando cadono sull’asfalto bagnato. Vorrebbe andarsene, scendere ora, sì ora, in mezzo all’autostrada e camminare, camminare e camminare fino a ritrovare quella serenità persa da quando quell’uomo, quel bastardo è entrato nella sua vita. Vorrebbe urlare. Ecco, di tutte le cose reali che vorrebbe fare, vorrebbe urlare. Urlargli.

Ma dalla sua bocca esce solo una voce flebile, seguita da qualche lacrima che le sbiadisce il trucco.

«Una volta avevi detto d’amarmi».

L’uomo non la guarda nemmeno. Sospira come farebbe un padre che cerca di spiegare a un figlio la virtù di un tempo passato.

«Questo non l’ho mai detto».

La pioggia nevata, nel tempo di pronunciare quella bugia, diventa pioggia. La melodia cambia, il Soprano lascia spazio al Tenore dando vita a un suono più duro, più prepotente, più maschile.

La pioggia, forte, sporca, influenzabile è maschio.

«Sì invece. Avevi anche detto che saremmo stati insieme per sempre» fa lei alzando la voce. Le sue lacrime rimangono gli unici fiocchi di neve da lì fino alle montagne innevate lungo l’orizzonte visivo.

L’uomo ride nervosamente.

«E questo quando l’avrei detto?»

«La prima volta che l’abbiamo fatto» risponde lei seria, guardando il suo profilo.

«La prima volta si fanno tante promesse. La maggior parte false». risponde lui superando una macchina a destra e ignorando il suo sguardo.

«Non io».

L’uomo scuote la testa e accelera. Poi sorride, una risata nervosa.

«Infatti sei stata di parola. Hai deciso di rovinarmi la vita».

«Rovinarti la vita!»

Ora urla, non le interessa più niente. Non le interessa che lui abbia trent’anni di più, non le interessa che lui abbia una famiglia e neanche che lui sia uno dei migliori amici di suo padre. No, l’età non è sintomo di maturità. Quell’uomo, anzi, no, quel vecchio che ha davanti è solo un ragazzino impaurito. Un ragazzino come quelli che vede ogni giorno all’università. Quelli che si vestono con le sneakers, girano con giubbotti improbabili e pensano di sapere tutto sull’amore perché hanno letto Bukowski.

«Sei solo un bastardo egoista. Fammi scendere subito».

«Siamo in autostrada».

«Non mi interessa un cazzo. Fammi scendere subito o mi metto a urlare».

«Non fare la bambina».

«E tu non fare l’adulto. Di vecchio hai solo l’età» urla sputandogli pezzettini di rancore addosso.

«Non posso lasciarti da sola, ho un debito di riconoscenza con tuo padre…»

«Ma vattene a fanculo!» esplode di rabbia e si gira ad aprire la portiera.

Il freddo invade l’abitacolo. Si infiltra tra i due esseri umani avvolgendoli come un lenzuolo umido. La pioggia bagna il viso della donna. La neve dei suoi occhi e la le lacrime di Dio ritornano a unirsi come due novelli Romeo e Giulietta e cominciano un canto tra Tenore e Soprano con l’aggiunta di un terzo elemento, un elemento che entra a prepotenza come la differenza tra loro due. Il vento, il vento soffia parole di sconforto nelle orecchie della donna.

Lui non ti ama. Non ha mai amato.

L’uomo riesce a tirarla verso di sé. La portiera si chiude, le parole del vento rimangono fuori. Nel silenzio, la voce dell’uomo pare molto più giovane, pare abbia meno di trent’anni.

«Va bene, va bene. Ti lascio al primo autogrill»

La pioggia s’allontana man mano che l’auto mangia la strada, lasciando spazio a una neve calda, dolce e bianca come l’odore del talco per neonati.

Quando la l’uomo riparte, lasciandola da sola, lei sorride. Non ha più freddo. Si accarezza la pancia.

«Ora siamo solo io e te».

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