Maternità ( Finale)

Reinterpretazione della Metamorfosi di Kafka in chiave femminile con l’aggiunta di elementi pulp.

Parte 3 di 3.


Nell’incubo la creatura si arrampicava sul suo corpo come una formica sul cadavere di una rondine. L’infilzava trapassandole la carne e gradino dopo gradino giungeva al viso. Aveva un fetore nauseante. L’odore del sangue appena prelevato. Poi si fermava, si fermava allontanandosi per guardandola dritta negli occhi.  Aveva un bulbo più grande dell’altro e una guancia rigonfiata che cadeva verso terra. Il naso emetteva un pesante respiro e la bocca sigillata dai tessuti si muoveva come a voler dire qualcosa. Lei non poteva muoversi.

«Chi sei?»

Giura d’aver detto.

La creatura aveva mosso la lingua nascosta sotto un filo di pelle marcia senza emettere voce. La voce, arrivò poco dopo, ma da dentro di lei.

«Sono te».

D’improvviso, tagliandosi un’uscita tra i tessuti, la lingua della cosa uscì riempendole il viso di sangue. La lama continuò a tagliare la pelle fino ad aprire la bocca bagnando tutto il suo corpo di un liquido rosso, nero e giallo.

«Mamma» urlava ora la creatura mischiando parole al sangue.

Aveva la sua voce.

La stanza si riempì di un fortissimo suono bianco. Il palco si fece più scuro, sempre più scuro. La creatura sparì, il suo corpo sparì… lei sparì.

“Vi dichiaro marito e moglie. Può baciare la sposa.”

Fu uno dei primi raggi del mattino, attraversando gli spioncini della persiana, a svegliarla. Come una lupa, la luce si appoggiò sui suoi occhi nocciola disturbando il suo inconscio.

L’incubo.

Era solo un incubo.

Si toccò il grembo. Non era incinta.

Sospirò appoggiandosi allo schienale del letto. Sentì un respiro alla sua destra. Un uomo dormiva girato di spalle. Chi era? Era stanca di farsi domande. Scosse la testa.

Suggestione.

Questa l’irrazionale spiegazione che si diede, alzandosi.

Stanchezza.

Questa l’irrazionale spiegazione che si diede sentendosi le ossa informicolate al toccar terra.

Paranoia.

Questa l’irrazionale spiegazione che si diede vedendosi il seno cadente.

Ma non riuscì a dare nessuna spiegazione quando, scendendo le 12 scale fino alla cucina, vide il suo corpo seduto a tavola. Stava facendo colazione.

Si avvicinò attonita. Il corpo la vide e le sorrise.

«Buongiorno Mamma. Come ti senti oggi?».

Cosa mi sta succedendo?

Dalle scale sentì la presenza di un uomo. Era suo padre. Aveva qualcosa tra le braccia.

«Buongiorno Amore».

Disse rubandole un bacio sulle labbra, grattandole le guance con la sua barba spigolosa e passandole la creatura.

Il suo bambino.

Era piccolo come un cucciolo di coniglio e aveva un viso vuoto.

Senza occhi, senza naso, senza bocca.

Senza niente.

«Non lo voglio» disse sottovoce allontanando la creatura per ridarla al padre.

«Amore, cos’hai?»

Vide qualcosa muoversi dentro il viso del bimbo. Qualcosa gli stava uscendo dalla faccia.

Urlò e la lanciò la cosa contro il muro.

Un colpo secco.

Poi silenzio.

Il muro bianco divenne rosso come un cerotto applicato su una ferita fresca.

L’uomo rimase attonito, la ragazza urlò. Dal muro il sangue cominciò a colare lentamente come gocce di pioggia sul finestrino di un’automobile.

Maria salì a perdifiato le scale entrando nella sua stanza.

Nel piano di sotto suo padre, o marito, piangeva urlandole «assassina, assassina, hai ucciso nostro figlio».

Il quadro era ancora lì. Aperto come lo ricordava.

Si chinò a terra, raggomitolata su sé stessa.

«Non sono una madre, non sono una madre, non sono una…» cominciò a ripetere e ripetere in un osceno ritornello che continuò fino all’arrivo della polizia.

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