La dissìpula ( Racconto Breve)

In paese si diceva che la famiglia Cossu era una famiglia disgraziata. Immigrati sardi, la
famiglia era sempre parsa strana agli occhi delle persone della piccola cittadina di Quarto
d’Altino. Forse per il loro accento peculiare, forse per il loro modo di parlare con le pecore,
urlandole e sgridandole come fossero tosatei, forse per i misteri che albergavano dentro le
mura della loro casa. Si diceva che la vecchia, la signora Tina Cossu, fosse un’assassina. Si
diceva che uscisse la sera, vestita di nero per portar via la vita a chi non era più in grado di
viver da solo. Ma erano solo i pettegolezzi delle donne della chiesa di Quarto. Tina Cossu non
faceva più queste cose. Non ci riusciva più. Alzare sopra la testa, a ottant’anni su matzolu era
impossibile. Nonostante avesse le braccia possenti e non le mancasse l’energia, Tina Cossu
sapeva che a ottant’anni “a pês a sa losa”. Per questo aveva deciso di emigrare, di andarsene
da Nughedu San Nicolò, il suo paese natale, per cercare una discepola per insegnarle l’antico
mestiere dell’Accabadora. Non poteva insegnare l’arte a suo figlio Gino poiché l’Accabadora
“deve essere nà femina”. Non poteva nemmeno insegnarlo alla moglie del figlio, poiché aveva
partorito fuori dal matrimonio e quindi il suo cuore non era puro per portare le anime alla
morte. In assenza di ciò, la vecchia Tina si recava ogni giorno in chiesa, anche due o tre volte
lo stesso giorno, camminando per le strade fangose che conducevano al centro della cittadina,
uno dei pochi borghi risparmiati dalla grande guerra, per chiedere a Dio di trovarle una
“ dissìpula ”.
Leggenda vuole che Dio, forse per misericordia forse per esaurimento, l’ascoltò e un giorno
d’inverno, durante le sue camminate in solitaria, Tina incontrò Sara Trevisan.
Sara era una ragazza nata e cresciuta a Quarto in una fattoria lungo il Sile. Una ragazza sulla
trentina che aspettava ancora di venir data in sposa. La guerra aveva portato via molti uomini
a Quarto, per questo Sara, ormai persa la prospettiva di trovar marito, passava le giornate ad
accudire i suoi genitori. Quel giorno, il giorno in cui lei incontrò la vecchia Accabadora, Sara era
diretta in chiesa a pregar per suo padre Emilio.
Camminava in silenzio, tenendo un rosario in mano e piagnucolando. Era piccola e aggraziata.
Tina la notò subito. Sembrava lei da piccola. Si avvicinò e cercando in tutti i modi di parlar la
lingua del posto, disse:
“Buongiorno, perché sei in pena ragazza?”
“Buongiorno, por me pare Emilio. Sta molto male, Non sopporto più di vederlo in quelle
condizioni.”
Tina si fermò. Lei se ne accorse dopo aver fatto qualche passo. Si guardarono dritte negli
occhi. Gli occhi neri dell’una; quelli blu dell’altra.
“Io posso togliere la pena a tuo padre e alla tua famiglia.”
“Come?”
“Portandolo a Dio nella maniera più dolce possibile.”
Gli occhi della vecchia Accabadora erano colmi di gentilezza, materni e impassibili. La ragazza
capì: era giusto così.
La sera la vecchia Tina, per l’ultima volta nella sua vita, indossò il “vestito nero” e si diresse
verso la casa dei Trevisan trascinando il suo martello. Arrivata chiese a Sara e a sua madre di
aspettare fuori. Giunta nella stanza padronale, dove il povero Emilio giaceva moribondo, Tina
Cossu prese il suo martello e riportò l’uomo dal signore nostro Dio.
Poi ripulì su matzolu e coprì con un lenzuolo il viso dell’uomo. Quando scese, cercò subito Sara
che piangeva nel fienile, e le disse “To pare è a Dio.”

Poi le porse il martello. Lei lo prese confusa. “Ora sarai tu nà femmina l’accabadora” poi
aggiunse “portami a Dio. Ti prego; portami a Dio “
“Io? Ma come farò ad apprendere”
“Su tempus est mastru.”
Così Sara esaurì l’ultimo desiderio di Tina Cossu e da quel giorno lei divenne l’ultima
Accabadora. L’Accabadora di Quarto.

Immagine presa da Wikypedia
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